venerdì 9 luglio 2010

Siamo Seri!

Siamo Seri! Sembra il titolo di una poesia di Majakovskij, invece è la conclusione di un commento anonimo ricevuto sul mio blog.

Commento che ho deciso di utilizzare come spunto per questo post insieme a due altre "chicche": un articolo pubblicato sulla stampa locale e alcune bottiglie di “vin de garage” in vendita in un negozio di ortofrutta a Cirò Marina con l'etichetta che recita (vedi foto):

Vino: Cirò Rosso
Vitigno: Merlot.

Dunque, commento, articolo e bottiglie mi fanno riflettere sull'enologia del Cirotano e sul mio impegno contro la proposta di modifica del disciplinare del vino Cirò che oltre al Gaglioppo (il vitigno autoctono più diffuso in Calabria) permetterebbe l'utilizzo di varietà internazionali (Merlot e Cabernet e in un futuro prossimo chissà Syrah?)

Va bè direte voi, ma il commento cosa dice?

Eccolo, integralmente riportato nella sua lingua originale:

Avrei dubbi che in quella bottiglia ci sia vino Cirò derivante appunto da gaglioppo in purezza. Credo che l'amico architetto Defranco che oggi all'improvviso è diventato Enologo abbia come da buon prestiggiatore di titoli ingannato tutti con un vino che non è Cirò. Cerchiamo di essere seri sul cirò non perchè il Cirò non è un buon vino, anzi direi che il Cirò è uno dei migliori vini di Italia ma quel vino imbottigliato da Defranco non ha i sapori e le caratteristiche del vino che l'Architetto Defranco dichiara. Siamo Seri!

Ora, al di là delle deliranti affermazioni sul mio conto,

  • Se qualcuno (probabilmente di Cirò) afferma di non riconoscere profumi e gusti del Gaglioppo nelle mie bottiglie;
  • Se si vendono bottiglie (artigianali certo) come Cirò Rosso da Merlot;
  • Se il Presidente del Consorzio di Tutela del vino Cirò afferma che le modifiche al disciplinare servono “a legalizzare ciò che succedeva da 40 anni”;

Mi chiedo:

Esiste ancora una identità condivisa del Cirò?

E se esiste qual'è?

E se non esiste, perchè?


E in ultima analisi,
Perché continuo a rompere le scatole a tutta questa brava ggente, pretendendo di difendere l'identità del vino Cirò?

Non ho risposte immediate a queste domande e mi piacerebbe avere un riscontro sia dai Cirotani che da osservatori esterni.

In questi mesi di continua discussione sulle possibili modifiche al disciplinare, mi sono fatto l'idea che noi Cirotani, e in generale noi calabresi, in fatto di enologia crediamo poco nella materia prima che abbiamo a disposizione, cioè una base ampelografica autoctona unica ed inimitabile e un territorio estremamente vocato per la viticoltura di qualità.

Da più parti vengono rilevati i possibili problemi che pone la vinificazione del Gaglioppo, ma non si fanno considerazioni serie sul lavoro in vigna. Sicuramente il Gaglioppo è un'uva difficile (come tutte le grandi varietà d'altra parte) ma non si può parlare a livello assoluto della qualità di quest'uva. Le pratiche agronomiche che prediligono la quantità, terreni non vocati come quelli di fondovalle, vendemmie precoci, portano ad un deciso decadimento di molti parametri qualitativi. Si possono produrre quindi, nello stesso territorio, uve Gaglioppo con potenziali enologici enormemente diversi. Sembra un concetto banale ma non è scontato.

In un recente articolo su www.Intravino.com, (leggi qui) Jacopo Cossater si chiede perché la Calabria enologica sia ancora misconosciuta. Scrive: "... l’impressione è che basterebbe così poco, sia in cantina che nei vigneti, per regalarci prodotti capaci di raccontare al meglio questa regione, naturalisticamente splendida."

Dalle mie conoscenze posso affermare che la maggior parte delle aziende ha fior di consulenti in vigna e in cantina e dal punto di vista tecnologico non c'è cantina che non sia super attrezzata.

Invece, sopravvive tenacemente una subordinazione culturale che ci fa sentire inadeguati e pronti ad accettare una visione altra che riteniamo sicuramente più “moderna”. Una visione che ci porta a rinunciare alle caratteristiche identitarie delle nostre uve per inseguire modelli enologici considerati più validi.

Così i caratteri unici ed inimitabili del Gaglioppo (colore poco intenso, aromi mai esuberanti ma fini, tannini ben presenti) diventano un problema e si fa di tutto per eliminarli.
È una questione culturale più che di conoscenze tecniche.

Non è vero quindi che “basterebbe poco” perché, se a deficienze tecniche si può facilmente ovviare con adeguati investimenti economici, i cambiamenti culturali sono molto, molto lenti.

Con questo discorso non voglio generalizzare, esistono a Cirò realtà aziendali lungimiranti che fanno della ricerca scientifica sulle varietà autoctone la base della loro presenza sul mercato presente e futuro.

In questi ultimi anni molti viticoltori hanno iniziato a vinificare in proprio, come risposta alla crisi del mercato delle uve, portando alla nascita di nuove cantine con dimensioni medio piccole. Questo fenomeno può essere motivo di speranza.

Nuove energie dovrebbero apportare idee nuove e diverse, maggiore confronto, la possibilità di prodotti con più personalità e più improntati alla territorialità. Se così fosse inevitabilmente avremo, poi, cambiamenti negli equilibri imbalsamati del Consorzio di Tutela.

Il rischio tuttavia è che il modello di un'enologia industriale, sinora prevalente a Cirò, venga assunto anche da queste piccole aziende. I risultati sarebbero deleteri per tutto il territorio.

Penso che piccoli territori viticoli come il Cirotano, debbano avere un approccio identitario forte e consapevole, in modo da produrre vini di territorio ed evitare di confondersi in un mercato sempre più omologato.

Luciano Pignataro scrivendo dell'Aglianico, (leggi qui) dice che bisognerebbe andare più lenti per produrre qualità. Secondo me questo concetto vale anche qui a Cirò: praticare la lentezza piuttosto che inseguire un mercato che impone sempre più velocemente nuove mode e nuovi modelli enologici.

Insomma, Siamo Seri!

Francesco Maria De Franco